“Perfetto sin dalla nascita, egli non aveva bisogno di discipline spirituali per ottenere la Liberazione. Qualunque disciplina praticasse, era solo per rimuovere il velo che, in quel momento, nascondeva la sua vera natura divina e la sua missione nel mondo. Ancor prima di nascere, il Signore lo aveva scelto come Suo strumento per svolgere il suo compito nell’opera di redenzione spirituale dell’umanità.”
In questi termini parla Swami Nikhilananda, redigendo la biografia di questo straordinario personaggio che aveva come destino quello di compiere un’opera ardita ed oltremodo complessa: creare un ponte fra l’Oriente e l’Occidente.
Swami Vivekananda nacque a Calcutta il 12 gennaio del 1863, esattamente nel giorno in cui in India milioni di devoti offrono uno speciale tributo al Gange, saturando l’acqua del fiume sacro, la terra che attraversa, l’aria e lo spazio circostante di preghiere, adorazioni, musica e canti devozionali. Sua madre aveva un aspetto regale ed era una fervente devota. Una notte sognò Shiva che benediceva la nascita di quel figlio. Il padre era un avvocato dalla mente aperta, amante della letteratura e dei libri illuminati. Entrambi si occuparono dell’educazione dei figli con dedizione e molto amore. Narendranath, questo è il nome che ricevette dalla sua famiglia, crebbe serenamente e diventò un ragazzino dolce, allegro ed estremamente esuberante. Ogni volta che un monaco itinerante si avvicinava alla porta di casa, egli ne restava affascinato. La madre gli insegnò ad amare le divinità indù, ma fu spontanea la sua scelta di creare un altare con l’immagine di SHIVA, per adorare il dio della rinuncia, lo Yogi Supremo. Già da bambino meditava a lungo davanti all’immagine di SHIVA. Fu in quel periodo che, prima di addormentarsi, iniziò a vedere, tra le sopracciglia, una sfera di luce che cambiava colore, si espandeva fino ad esplodere, inondando il suo corpo di una luce bianca radiosa. Questa visione non lo abbandonò mai.
A quindici anni ebbe la sua prima esperienza di estasi spirituale: accadde spontaneamente mentre, viaggiando su un carro con la famiglia, ammirava strabiliato la magnificenza della natura che lo circondava in un concerto di profumi, colori e suoni. Quando riprese coscienza, visse un profondo senso di gratitudine verso il Divino. Sin da bambino, tutto ciò che viveva e le persone che incontrava gli sembravano conosciute e familiari. Aveva certamente delle qualità mentali eccezionali, che il padre contribuì a risvegliare incoraggiandolo ad incontrare intellettuali e studiosi. Fu sempre il padre ad insegnargli l’arte di cogliere l’essenza delle cose e di esplorare la verità da diversi punti di vista, senza mai allontanarsi dall’argomento che era oggetto di discussione. Nel 1879, a 19 anni, sentì parlare per la prima volta di SRI RAMAKRISHNA, il sommo maestro definito l’uomo-dio, conosciuto per aver praticato le diverse vie spirituali nell’intento di acquietare la sua sete di Dio e realizzare la divinità nel suo essere. RAMAKRISHNA visse la prima volta lo stato di estasi spirituale a sei anni. Fu un fervente adoratore della Mamma Divina KALI. La sua ricerca spirituale lo indusse a credere di avere una missione divina sulla terra: quella di fondare un nuovo ordine religioso universale per volontà della MADRE DIVINA. Narendranath, che si apprestava ad intraprendere gli studi superiori, dimostrava qualità straordinarie di memoria, apprendimento e capacità di sintesi. Leggendo le prime e le ultime righe di un paragrafo riusciva a capire l’argomento trattato, il suo sviluppo, il pensiero dell’autore e il messaggio che intendeva trasmettere. Studiò la logica occidentale, si specializzò in filosofia occidentale e in storia antica e moderna delle nazioni europee. I professori consideravano la sua erudizione eccezionale e la sua mente geniale. Studiò anche musica vocale e strumentale, ma riuscì ad eccellere soprattutto nel canto. In quel periodo venne introdotto in India il sistema scolastico inglese, che, oltre a mettere gli indù a contatto con la cultura europea, rese ancora più evidenti i numerosi problemi della società, in cui, dopo il crollo del dominio musulmano, regnava il caos in ogni campo: politico, economico e religioso.
Dogmi e cerimonie sterili presero il posto dell’infinita saggezza delle Upanishad e della Bhagavad Gita, il popolo era impoverito e la condizione delle donne era pietosa. In questo periodo nacquero diversi movimenti riformatori liberali, fra i quali il Brahmo Samaj, al quale aderì anche il giovane Narendranath. Il movimento era eclettico ed intellettuale e non era radicato nell’induismo tradizionale, denso delle esperienze dei santi e dei veggenti. Fu sempre in questo periodo che il padre tentò di farlo sposare ma lui rifiutò categoricamente; egli si considerava un brahmachari, uno studente celibe, che lavorava duramente, teneva in grande considerazione le discipline ascetiche, riveriva le cose sacre e trovava piacere nei pensieri, le parole e le azioni pure: egli riteneva che essere puro significasse conservare un’intensa forza spirituale. Si sentiva attratto dalla via della rinuncia e il suo sé più profondo scelse la vita austera. Ben presto il suo impegno attivo nell’ambito del Brahmo Samaj non lo soddisfò più, e sentì crescere fortemente dentro di sé un immenso desiderio di realizzare Dio, e per far questo sapeva, in cuor suo, che avrebbe dovuto cercare qualcuno che lo avesse già realizzato. La sua nostalgia verso il Divino lo indusse a cercare il Maestro che avrebbe risvegliato la sua anima. Lo incontrò nel 1881.
SRI RAMAKRISHNA riconobbe all’istante il suo futuro messaggero, e con le lacrime agli occhi gli comunicò che attendeva da tempo il suo arrivo e che era l’incarnazione di NARAYANA, sceso sulla terra per rimuovere la miseria dell’umanità. La mente acuta, razionale e sofisticata del giovane Narendranath considerò strano il comportamento del Maestro, tuttavia, prima di andarsene gli chiese se aveva visto Dio. Il Maestro rispose di sì e Narendranath rimase stupefatto: sentiva che le parole del Maestro erano vere, ma non riusciva a conciliare questa straordinaria verità con il Suo strano comportamento. La seconda visita fu ancora più sconcertante: mentre viveva uno stato di estasi, il Maestro gli si avvicinò e lo toccò con il piede destro. A quel tocco, Narendranath vide all’improvviso scomparire tutto ciò che lo circondava, compreso se stesso, ed ebbe l’impressione di fare l’esperienza della morte, cosa che lo spaventò e lo fece gridare al Maestro di smettere. La terza volta fu ancora peggio e, nonostante si fosse ripromesso di non abbassare mai la guardia, non poté fare nulla quando SRI RAMAKRISHNA lo portò in giardino e lo sfiorò mentre era in trance, facendogli perdere coscienza. Il Maestro diceva spesso ai suoi discepoli, parlando di lui, che era uno dei sette grandi rishi o saggi che vivono nel reame dell’Assoluto.
L’incontro con il Maestro aveva scatenato una tempesta nella vita interiore di Narendranath, dal canto suo, SRI RAMAKRISHNA era stabilito nella pace e nell’Amore Divino. Era comunque certo che tutto ciò per cui il giovane si era battuto fino a quel momento, in virtù del suo pensiero moderno che criticava la fede cieca, l’adorazione delle immagini, i rituali della religione indù, e il suo scetticismo in riferimento alla necessità di un guru, di un intermediario umano fra Dio e l’uomo per realizzare la Verità, era in netta contraddizione con le esperienze che faceva ogni volta che incontrava il Maestro; è per questo motivo che Narendranath criticava le visioni di SRI RAMAKRISHNA quando raccontava di dei e dee, definendole allucinazioni. Il Maestro affrontò la sfida della mente raffinata e colta di Narendranath con la sua comprensione superiore, acquisita con la conoscenza diretta dell’essenza delle cose, e quando il discepolo non riusciva a comprendere con la ragione il mistero ultimo, il Maestro gli dava l’intuizione necessaria. Ci vollero cinque lunghi e faticosi anni prima che Narendranath si affidasse completamente. Il Maestro non criticò mai la testardaggine e l’arroganza del suo discepolo prediletto, considerandole un segno della sua nobile virilità, della fiducia in se stesso, dall’autocontrollo e di quella innata purezza che lo contraddistingueva. Del resto, SRI RAMAKRISHNA era sempre contento quando il discepolo metteva alla prova le sue affermazioni o il suo comportamento prima di accettare i suoi insegnamenti.
Egli diceva: “Mettimi alla prova…non devi credermi senza mettermi completamente alla prova”. Le innate tendenze spirituali di Narendranath iniziavano ad affiorare, anche se la lotta con la sua mente razionale e colta lo sfiniva. Visse anche un periodo in cui percepiva il suo cuore arido e incapace di trovare ristoro nelle preghiere e negli atti di devozione, e in quelle circostanze gli fu di grande sostegno la musica che mantenne viva la sua fiamma interiore. Nel 1884 il padre morì improvvisamente e l’intera famiglia si trovò ad affrontare la povertà; Narendranath fu costretto a cercare un lavoro ed in quel periodo visse momenti di profonda sofferenza, soprattutto nel vedere la madre e le sue sorelle patire la fame, come egli stesso del resto. Fu questo un periodo di sofferenza e di profonde comprensioni che lo avrebbero avvicinato alla realtà della sua missione sulla terra. Fu in questa situazione estrema che il Maestro lo invitò a rivolgersi alla Madre Divina KALI, invocando il Suo sostegno in quel momento particolarmente difficile della sua vita. Narendranath non aveva mai voluto riconoscere KALI come Madre Divina dell’Universo. Quella sera si recò al Tempio di Kali. Quando si trovò al cospetto della statua sentì il cuore inondarsi di gioia, egli riconobbe in essa la Dea Vivente, la Madre Divina…era in estasi…chiese alla Madre Divina che gli fosse concesso il dono della saggezza, della discriminazione, della rinuncia, della Sua visione continua, ma non chiese il sostegno di cui aveva bisogno. Vi tornò una seconda volta con l’intenzione di farlo, e anche questa volta se ne dimenticò, e la terza volta fu lo stesso; il messaggio era chiaro: “…non chiedere nulla per te stesso, dimentica il mondo e conduci una vita di rinuncia…”. Narendranath tornò sempre dal Maestro nei suoi momenti di difficoltà spirituale.
Mai dimenticò i suoi insegnamenti; SRI RAMAKRISHNA lo rieducò nei principi essenziali dell’induismo; gli insegnò che il Dio personale e l’adorazione attraverso i simboli conducono infine il devoto alla realizzazione della sua completa unità con il Divino; gli insegnò la divinità dell’Anima, la non dualità della Divinità, l’unità dell’esistenza e l’armonia di tutte le religioni. Gli trasmise un grande ideale: L’UNITA’ NELLA DIVERSITA’.
Narendranath era diventato un giovane forte, dalle ampie spalle, dinamico, dallo sguardo profondo la voce melodiosa; trasmetteva chiaramente i suoi stati d’animo attraverso i gesti, lo sguardo e i movimenti del suo corpo, aveva un grande temperamento, un elevato senso dell’umorismo, una struggente tenerezza nel cuore e un carisma straordinario. La pratica spirituale assidua, lunghi periodi di profonda meditazione e sublimi stati di estasi portarono Narendranath alla realizzazione di molti poteri spirituali, ma egli aspirava a vivere la suprema esperienza del vedanta non dualistico, il Nirvikalpa Samadhi, e ben presto realizzò anche quest’aspirazione. Nel 1886 il Maestro morì e affidò a Narendranath tutti i suoi discepoli; questi non si risparmiò nel farlo, dedicando tutte le ore della sua giornata all’addestramento dei nuovo condiscepoli. Una sera, in cui si sentiva particolarmente ispirato, esortò i suoi condiscepoli a vivere come Cristo. Questa esortazione li infiammò di una nuova passione per Dio, e i giovani non esitarono a prendere i voti di castità e povertà e diventare monaci; è noto infatti che i monaci dell’ordine di SRI RAMAKRISHNA nutrissero un’altissima venerazione per Gesù di Nazareth. Per lunghi periodi vissero di stenti, senza avere nulla da mangiare, ma anche questo faceva parte della disciplina spirituale. Arrivò il momento in cui la vita del monaco errante con un bastone e la ciotola per le elemosina diventò un richiamo irresistibile. Anche Narendranath partì, lasciando che il tempo e la polvere cancellassero anche il suo nome. Iniziò un periodo di pellegrinaggio, di profonda e fruttuosa meditazione e predicazione. Ogni giorno diventava sempre più cosciente della miseria che attanagliava la sua gente, affamata, abbandonata al proprio destino, dimenticata, e man mano si andava delineando in modo sempre più chiaro il sentiero che avrebbe percorso. Parlando ai condiscepoli, disse loro che era assolutamente necessario predicare a tutti il messaggio apportatore di forza del Vedanta, soprattutto alle masse più oppresse.
Egli desiderava che la saggezza dei Veda fosse diffusa a tutti, anche ai fuoricasta e nei bassifondi più degradati. La sua mente iniziò a concepire l’idea che le condizioni materiali delle masse non potevano essere migliorate senza la conoscenza della scienza e della tecnologia che si erano sviluppate in Occidente. I suoi occhi guardavano lontano e già iniziava a sognare un ponte che unisse l’Oriente e l’Occidente, ma per far questo doveva risvegliare, prima di ogni altra cosa, la grande Anima Spirituale dell’India sofferente e degradata, affinché riacquistasse la sua dignità regale, e lavorò instancabilmente in questa direzione. Realizzò ben presto che l’Occidente era afflitto da un male altrettanto grave, seppure di origine diversa, se non del tutto opposta: il benessere e la tendenza materialistica della gente apparentemente felice nascondevano una lenta ed inesorabile agonia spirituale.
A 24 anni lasciò il monastero, promettendo che non sarebbe tornato prima di aver ottenuto una realizzazione tale da permettergli di trasformare un uomo con un solo tocco. Nel corso di questo viaggio, comprese come diventare un canale dello Spirito Divino al servizio dell’umanità… in quei giorni imparò ed insegnò, e la sua immensa energia stava finalmente trovando i canali per esprimersi. Era determinato a ridestare la divinità addormentata negli esseri e, avendo molto a cuore la sua patria, pensò che essa avesse bisogno di conoscenza scientifica e tecnologia per risollevarsi. Pensò che andando in America avrebbe potuto offrire a quel popolo ricettivo l’antica saggezza dell’India, e ricevere magari in cambio un supporto tecnologico che avrebbe avviato un processo di risanamento nel suo paese. Era questa la sua missione, e partì con la benedizione di tutti i suoi condiscepoli. Una serie di circostanze e di incontri fortunati vollero che Narendranath, il quale, prima della sua partenza, venne chiamato SWAMI VIVEKANANDA (Viveka: discriminazione fra il reale ed l’irreale – Ananda: beatitudine), partecipasse al Parlamento delle Religioni. Erano presenti settemila persone in una sala gigantesca, c’erano molti relatori, rappresentanti di ogni religione, era presente anche Ghandhi. Ognuno parlò del suo credo e dei relativi ideali. SWAMI VIVEKANANDA era molto emozionato e aveva la gola secca, e più volte aveva pregato il segretario di chiamarlo il più tardi possibile. Arrivò il suo momento, si alzò in piedi, si inchinò a Saraswati, la dea della saggezza e si rivolse al pubblico, che era incuriosito e attratto dallo splendido abito color arancio e il turbante giallo, dicendo: “Sorelle e fratelli d’America”. All’istante, a migliaia si alzarono dalle sedie e applaudirono a lungo quel monaco che, con infinità umiltà si era rivolto a loro come a dei fratelli.
Egli parlò di accettazione e di tolleranza universale, parlò di Dio che, essendo il fine ultimo di tutte le fedi, ne costituisce l’essenza più intima. Dichiarò che tutte le religioni erano vie ugualmente efficaci in grado di guidare i devoti verso l’unica meta della perfezione. Parlò diverse volte e concluse dicendo che il cristiano non deve diventare un indù o un buddista e viceversa, ciascuno deve assimilare lo spirito degli altri e tuttavia preservare la propria individualità e svilupparsi secondo la propria legge di crescita. Parlò dei Veda come di un tesoro delle leggi spirituali scoperte nei secoli dai veggenti indiani, che egli avrebbe voluto offrire a tutti coloro che avevano la volontà di crescere e di migliorarsi, asserendo che proprio come la legge di gravità esisteva ancor prima di essere scoperta, così le leggi che governano il mondo esistono indipendentemente dal fatto che si conoscano, ma è senz’altro utile e giusto conoscerle.
SWAMI VIVEKANANDA divenne, a soli 30 anni, una figura di primo piano nel mondo religioso. Fece moltissime conferenze incantando gli astanti con la sua voce melodiosa e la saggezza con cui erano impregnati tutti i suoi discorsi. Ben presto la sua schiettezza e il suo modo di essere estremamente diretto gli crearono delle inimicizie fra i rappresentanti religiosi ipocriti, che predicavano il nome del Divino per i propri scopi personali, i quali non mancarono di tentare di infangare il suo nome anche attraverso i giornali scandalistici, ma lui non se ne preoccupò molto. Trovò molti discepoli leali in America, e questo gli permise di proseguire la sua opera. Andò anche in Inghilterra, dove il suo pensiero fu molto apprezzato e seguito; anche lì furono in molti a diventare suoi seguaci. In America lo invitavano a tornare, ma era giunto il momento di ritornare in patria. In India si formarono comitati per organizzare la sua accoglienza. Il cuore della sua gente era infiammato d’amore per lo SWAMI. Non appena sbarcò, trovò migliaia di fedeli ad accoglierlo prostrandosi ai suoi piedi. Egli non si scompose: non era tipo da rifuggire il trionfo, come non rifuggiva la battaglia. Intanto in America si diffondeva largamente il Vedanta, e questo riempiva di gioia il cuore di VIVEKANANDA. Da quel momento si dedicò soprattutto ai giovani, ai quali poteva trasmettere il suo ardente entusiasmo, la saggezza delle Upanishad e l’importanza di coltivare la forza interiore che proviene dalla conoscenza di Dio, e in quel periodo molti giovani entrarono nell’ordine. Nacque la RAMAKRISHNA MISSION ASSOCIATION per iniziare l’opera di risanamento dell’India. Egli era convinto che l’eroismo fosse l’anima dell’azione; secondo lui non esisteva crimine più vile del non agire. Insegnò ai discepoli ad amare Dio come eroi. Spesso diceva: “I veri devoti sono forti, adamantini e impavidi…”. Diceva anche: “Il vero uomo è colui che è forte come la forza stessa, e che, tuttavia, possiede il cuore di una donna…la storia del mondo è la storia di alcuni uomini che ebbero fede in loro stessi”.
Tornò in Occidente per organizzare nuove fondazioni che potessero finanziare le attività in India. Con il passare del tempo iniziava a sentire, in modo sempre più impellente, la necessità di vivere momenti di solitudine. Tornò in India, visitò ancora alcune regioni del versante orientale e quando rientrò si ritirò in monastero. Era consapevole che si stava avvicinando la fine ed era sereno nel vivere questa consapevolezza. Studiò accuratamente l’almanacco bengalese per scegliere il giorno in cui avrebbe abbandonato il corpo fisico. Giunto il giorno scelto, si recò nella cappella del monastero da solo, chiuse le finestre e sprangò le porte, meditò per ore…mentre scendeva le scale del tempio cantò un bellissimo inno a Kali. I monaci vissero questo momento intensificando la preghiera e continuando a sentire nei loro cuori le parole del loro amato.
Pensando a lui, parole unanimi espressero la sua grandezza: “Sublimità e semplicità… forza, purezza, devozione, austerità e un’infinita compassione per tutte le creature condussero un uomo saggio a parlare in nome di Dio, in nome dell’Amore… per l’Amore, con infinito ed Eterno Amore, per abbattere ogni barriera, ogni diversità, ogni frontiera, per dare forza e corpo al principio Divino dell’Amore Assoluto in Dio e per far comprendere a tutti gli esseri umani la necessità di “costruire” un Tempio Universale, che possa accogliere migliaia di preghiere che nascano dal cuore, affinché, tutte insieme, diano vita ad un’unica Anima Immensa…” .
Sintesi interpretativa del libro:
“SWAMI VIVEKANANDA – L’apostolo del Rinascimento Spirituale dell’India”
(Biografia a cura di Swami Nikhilananda – Edizioni Vidyananda)